lunedì 31 ottobre 2011

Marc Chagall nella sinagoga dell’università di Hadassah, Gerusalemme

Se è noto che nella Knesset di Gerusalemme esistono i mosaici di Marc Chagall, ammirati da molti visitatori, le dodici vetrate della sinagoga nel Centro universitario di medicina con annesso ospedale dell’università di Hadassah sono invece quasi sconosciute.
Il vasto complesso medico-sanitario, costruito nel 1961, sorge appena fuori di Gerusalemme, sulla strada che porta ad ’Ain Karem, la città di san Giovanni Battista. Le vetrate, opera del grande artista russo, occupano interamente le pareti della sinagoga, inaugurata nel febbraio 1962, e fanno parte dei suoi ultimi grandi capolavori, creando un mondo di luce e di colore, che ammalia profondamente.
Si tratta di enormi pannelli, dedicati a ciascuno dei figli del patriarca Giacobbe e alle loro tribù, trattati ciascuno con una tonalità diversa di colore. Nel realizzare le vetrate, Marc Chagall (1887-1985) ha voluto come condensare l’ispirazione e le opere di tutta la sua vita, a partire dalle prime esperienze con Bakst a San Pietroburgo, poi a Mosca, Berlino e Parigi, e di nuovo in Russia, per rifugiarsi negli Stati Uniti e finalmente in Francia, ponendosi a contatto col primo surrealismo e con l’espressionismo, e dominando il mondo artistico del secolo scorso con la sua sfrenata fantasia onirica, grottesca, favolosa, fantastica, ricca di movimento e di colore.
Al tempo stesso, volle offrire un commosso omaggio al popolo ebraico, identificandosi con la sua storia, le sue leggende e le sue tradizioni, che aveva assimilato fin da bambino nel villaggio nativo ebraico di Vitebsk. L’artista, che aveva “francesizzato” il nome originario di Mark Sagal, confessò di aver avuto la sensazione, mentre lavorava alle vetrate, di aver dietro le spalle il padre e la madre che lo guardavano, insieme con milioni di ebrei “svaniti ieri e migliaia di anni fa”.
Per la composizione vetraria, fatta con l’aiuto di un discepolo, Charles Marq, non si servì della tecnica consueta di scomparti di piombo che sostengono i cristalli colorati che compongono le vetrate, ma coprì il vetro con sottili pigmenti, usando fino a tre colori su una singola lamina ininterrotta. Come ancora informa il foglio reperibile nella sinagoga, Marq si recò a Gerusalemme per trovare il luogo più adatto per collocare le vetrate, e verificare quale intensità di luce fosse necessaria per dare a ciascuna il giusto rilievo. All’esterno sono blindate con un processo che ne nasconde il colore.
Chagall si ispirò nella composizione alle benedizioni di Giacobbe, contenute sia nella Genesi (49, 2-27) che nel Deuteronomio (33), nonché alla descrizione del pettorale sacerdotale nel libro dell’Esodo (28, 15-28), dove già una stupenda fantasia coloristica parla di oro, blu, porpora e scarlatto, pietre preziose tra cui topazio, smeraldo, turchese, zaffiro, ametista, lapislazzuli e diaspro. La realizzazione artistica va oltre ogni possibilità di descrizione. Chagall illustra espressionisticamente le parole del patriarca morente, che descrive con toni altamente poetici le caratteristiche fisico-emblematico-simboliche dei suoi figli. E per ciascuno, l’artista ha scelto una gamma diversa di straordinaria intensità:  l’azzurro chiaro per Ruben, l’azzurro scuro per Simeone, il giallo-oro per Levi, il rosso scuro per Giuda, il rosso chiaro per Zabulon, il verde per Issacar, il blu per Dan, il verde scuro per Gad, il verde oliva per Aser, il giallo per Neftali, l’arancione per Giuseppe, e ancora il blu per Beniamino.
Lo stile delle composizioni è quello tipico di Chagall, ma estremamente semplificato:  in esse volano, nuotano e vivono pesci, uccelli, serpenti, altri animali, si trovano oggetti della storia e del culto ebraici come le tavole della Legge, la menorah, e poi fiori, mani, e così via.
Manca totalmente la figura umana. Per un’attenta identificazione dei contenuti è necessaria una conoscenza non solo della Bibbia, ma penso anche di elementi talmudici, targumici, rabbinici, e anche chassidici. E ciascuna di queste scene è immersa come in un magma di colore intenso, luminoso, talora perfino accecante, da dare all’anima e ai sensi come un incantesimo sovratemporale e trasportarli fuori della realtà.
Ad esempio, la vetrata dedicata a Giuda, immersa in un rosso mai visto, rappresenta due grandi mani (forse “la tua mano sarà sulla cervice dei tuoi fratelli”,Genesi, 49, 8), che corrono sotto una scritta ebraica, che ritorna più piccola in basso tra le raffigurazioni di un pesce, di un occhio, di case appena accennate, e tutto immerso in quel rosso scuro ardente, rotto dal bianco delle mani e da macchie di azzurro e giallo.
La forza coloristica della vetrata è potenziata da quella di Zabulon, posta accanto, di un rosso più chiaro, che con quella produce un violento insieme rosso-fuoco, dove i simboli quasi spariscono, eccettuati i caratteri ebraici cubitali che dominano dall’alto. Così il blu trionfa in varie tonalità complementari:  l’azzurro chiaro della vetrata di Ruben, come un mare agitato (“mio vigore e primizia …bollente come acqua”, Genesi, 49, 3s),  con un uccello bianco che si libra in volo verso una luna ricoperta di parole ebraiche, incurante di un altro uccello, blu, mentre pesci guizzano sul fondo; l’azzurro scuro della vetrata di Simeone, il blu scuro di quella di Dan dominata da un candelabro a tre braccia in mezzo a un bestiario tipicamente chagalliano, tra cui il serpente che minaccia due cavallini (“sarà un serpente sulla strada, una ceraste sul sentiero, che morde i talloni del cavallo”, Genesi, 49, 16s); quella di Beniamino con figure di lupo (“lupo rapace, la mattina divora la preda e la sera spartisce le spoglie”, Genesi, 49, 27).
Gli altri colori, alternandosi, lasciano spazi di giallo e oro (Levi, Neftali), di arancione (Giuseppe), di verde (Issacar, dominata da un placido asino azzurro:  “Asino robusto, sdraiato fra i tramezzi del chiuso”, Genesi, 49, 14) di verde oliva (Aser):  in queste ultime vetrate, più chiare e luminose, spazia maggiormente la fantasia dell’artista, con immagini più definite che si stagliano argutamente nella composizione.
Chagall aveva già composto dei quadri, dove un colore dominante dà come una fusione d’insieme al tema illustrato nell’opera:  come il giallo per il Mosè che riceve le tavole della Legge, nel Museo Nazionale Message biblique di Nizza, il blu per la vetrata de L’albero della vita, nella Chapelle des Cordeliers a Sarrebourg, e per Il sogno di Giacobbe, il rosso per il Mosè, entrambi a Nizza.
Ma una struttura così unitaria di composizioni, ciascuna caratterizzata da un colore dominante, che si sublima nell’insieme dello spazio, penso che sia un unicum nell’opera dell’artista. L’insieme è il trionfo della luce, che avvolge a poco a poco l’ammiratore, come nel contemplare i grandi capolavori del passato, e conquista fino al fondo dell’anima.
Si direbbe che Chagall abbia voluto far propria la concezione del suo contemporaneo Bruno Taut, architetto e scrittore della corrente espressionistica, che scelse lo pseudonimo di Glas (vetro), perché “simbolo della purezza, della luce, della comunicazione tra interno e esterno e dell’aspirazione a un’unità cosmica” (Nigro Corve, Espressionismo artistico, in Enciclopedia del Novecento, Istituto Treccani, ii, 777a).
Ma questa esplosione di luce e di colore è posta al servizio della Parola di Dio, estraendo la propria forza da pagine fondamentali del Pentateuco. Si può dire che le vetrate sono, sì, il commento, ma soprattutto il trionfo della Parola di Dio, che è stata rivelata all’uomo per indicargli la via della salvezza:  come la definisce il salmo 119, questa Parola eterna è “lampada per il mio piede… luce al mio cammino” (v. 105). L’alba della storia della salvezza, che trova nei dodici figli di Israele la sua definitiva configurazione – che, per noi cristiani, continua nei dodici apostoli, fondamenti della città celeste, che è tutta luce e colore (cfr. Apocalisse, 21, 14-23) – e prepara l’azione misericordiosa di Dio in tutta la sua estensione storica e misterica, è stata illustrata da Chagall con una potenza unica di creatività e fantasia. Con una intuizione radicata nella Prima Alleanza, ed espressa in forme di luce e di colore straordinari, ha riassunto la potenza della Parola di Dio, la sua guida nella storia, la sua presenza nel cuore dell’uomo che l’accoglie con fede.
Assai significativo è poi il fatto che questa creazione luminosa abbia trovato posto in un luogo di sofferenza e di solidarietà, ove veramente la Parola di Dio diventa viva, si legge nelle Scritture, si proclama nell’insegnamento e si fa preghiera cultuale della religione del popolo ebraico, passato nel secolo scorso nel rosso bruciante delle fiamme, dell’odio e della persecuzione più orrenda che si sia mai vista.
Veramente, queste dodici vetrate sono non solo un gran capolavoro d’arte, ma un ammonimento profetico a vivere nella fratellanza e nella pace, nella fede di quel Dio “che atterra e suscita, che affanna e che consola”, continuando a guidare la storia con la sua mano potente, come ha fatto con i patriarchi d’Israele.
di Giovanni Coppa, Cardinale Diacono di San Lino, fonte: ©L'Osservatore Romano - 22 agosto 2010

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